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Die Tote Stadt, di Erich Wolfgang Korngold

scena da die tote stadt

Opera in tre atti di Erich Wolfgang Korngold, libretto di Paul Schott,  diretta da Will Humburg, regia, le scene e i costumi di Pierluigi Pizzi. Produzione Teatro La Fenice di Venezia e Teatro Massimo di Palermo.

Un’opera complessa e moderna sia dal punto di vista musicale che della sua messa in scena. La fonte del libretto è il romanzo Bruges-la-morte di fine Ottocento del belga Rodenbach. Opera simbolista e racconta un sogno in cui morte e decadenza sono gli elementi principali.

Non si tratta di un intreccio complesso e proprio per questa ragione la linearità della storia deve necessariamente costringere il regista a render viva l’aspetto drammaturgico cercando di evitare il più possibile di incorrere nella banalità dell’azione e della recitazione. A rivestire un ruolo fondamentale è la scenografia. Non è un caso che sia curata dallo stesso regista.

Elementi caratterizzanti che conferiscono un’atmosfera lugubre e decadente sono la presenza dell’acqua, e la possibilità di navigare, sullo sfondo che richiama l’idea del fiume della città di Bruges, la dominante dei fondali neri. L’elemento di spicco è però una parete obliqua rivestita di una superficie riflettente che permette di rispecchiare parte della scena, parte del “fiume”. Il campanile del duomo simbolo della città è un elemento mobile che compare solo in alcune scene. Tre passerelle sempre oblique che mettono in comunicazione l’esterno, la città, e l’interno la casa del protagonista di cui è ricostruita la stanza santuario col ritratto di Marie la moglie defunta. Anche i costumi sono privi di colore, gli abiti sono bianchi o neri. L’intento è quello di esaltare le polarità attorno alle quali è costruito il tema vita/morte.

Il dinamismo delle azioni è moltiplicato dall’effetto specchio e dalle passerelle oblique. La stanza della defunta Marie diventa il luogo delle riflessioni e della staticità.

L’immagine della città morta non è solo uno sfondo ma una presenza viva, una protagonista che controlla e determina le azioni di coloro che vivono in essa., conferendo all’azione maggior realismo e caratterizzazione drammatica.

La vicenda si svolge a Bruges alla fine dell’800. Si narra la storia di Paul che in seguito alla morte dell’adorata moglie Marie, trasforma una stanza della casa in un tempio a lei dedicato. Nella città decadente incontra una ballerina, Mariette, venuta in città per una rappresentazione teatrale, dai tratti estremamente somiglianti alla moglie defunta. Con Mariette Paul vive una notte d’amore ma anche un incubo, in cui la nuova arrivata profana i ricordi più preziosi della donna amata e irride i sentimenti del vedovo. Quando Mariette ritorna a casa di Paul per riprendersi l’ombrello e le rose che aveva dimenticato, Paul decide di non rivederla ma anche di lasciare Bruges, la città morta, e infine pare interrogarsi sull’utilità, per i vivi, di amare troppo i morti.

Puccini off, regia Francesco Micheli, Teatro Massimo di Palermo

Puccini off, testi e regia Francesco Micheli, Produzione Teatro Massimo di Palermo

Avvicinare al teatro d’opera le giovani generazioni di studenti della scuola secondaria. Questo era l’obiettivo di questo spettacolo didascalico ma che ha saputo ben comunicare la passione per questo genere di teatro considerato sempre un po’ ostico e noioso. Una doppia passerella parte dal retro di un pianoforte a coda, qualche vecchia sedia impagliata, sullo sfondo uno schermo per la proiezione di clip multimediali. In scena due cantanti, un attore e un pianista. L’azione è svolta prevalentemente da cantanti e attori ma anche il pianista esegue poche semplici azioni in momenti particolari. Anche il pianista in effetti è in costume e indossa la fondina con la pistola. I costumi sono abiti scuri popolari tipici della fine del secolo XIX e inizio XX, l’epoca della migrazione di massa che ha visto tanti europei imbarcarsi sulle grandi navi per l’America.

Lo spettacolo un pout-pourri delle più famose arie di Puccini che fanno da contrappunto e da anello di raccordo alla narrazione della storia dei migranti d’Italia e d’Europa. Il racconto si snoda anche attraverso l’azione di micro sequenze di recitazione di alcuni fatti salienti, Sacco e Vanzetti, la povertà, l’indigenza, la fortuna, che gli attori sulla scena recitano. Alle azioni che si concludono quasi sempre con la riproposizione di un’aria pucciniana che lega il recitato e il cantato seguono alcuni momenti di narrazione multimediale di sequenze di immagini di repertorio che sullo schermo rievocano e vivificano l’azione sulla scena. La recitazione alterna un linguaggio piano e narrativo a un linguaggio popolare recitativo ed espressivo con la funzione di contestualizzare l’azione scenica. L’unico attore non cantante riveste molteplici ruoli: voce narrante, personaggio di una storia: un giudice, un giornalista, un vecchio migrante o un giovane avvocato.  La dinamicità dell’azione è delegata a pochi movimenti e a pochi cambi di attrezzi di scena e di costume.

Ai Brancacci quotidiani

Ogni mattina mi reco al lavoro, caparbiamente, tenacemente e irreversibilmente, in bici, indosso le cuffiette mp3 e attraverso il cuore nero di Brancaccio. Primo passaggio a livello chiuso. Sosta di pochi minuti. Scendo dalla bici. L’mp3 riproduce una colonna sonora random. Lo sguardo si muove lentamente, apparentemente indifferente. Osservo chi in macchina irrequieto e sguardo truce, chi col ciclomotore “truccato” smanioso di passare prepotentemente anche con la barra chiusa, chi ha aperto un’attività commerciale che durerà solo qualche giorno. La fila si allunga, la mia colonna sonora sovrastata dal rombo dei numerosissimi ciclomotori, alcuni smarmittati, altri con targhe manomesse. La mia espressione è certamente più cupa. Madri accompagnano figli, dal destino preformattato, a scuola, quella che lasceranno forse domani. Ecco il treno. Si alzano le sbarre. E’ un zigzagare incrociato di mezzi che sobbalzano, i più giovani sfrecciano. I caschi sono a casa poggiati. Riesco a stare inizialmente coi primi. Vantaggi della bici. Mi passano tutti. Gli auricolari sono soltanto una inutile extension e procedo in leggera salita verso Via San Ciro. L’attraversamento che più mi turba. Le case non nascondono. Per i bassi si intravede. Cani pisciano sulla soglia del vicino, cataste di legname in attesa del falò di S.Giuseppe, bici di picciuttieddi sbucano pericolosamente davanti a me. Mi ritengo fortunato. Procedo mi avvicino ai luoghi di Padre Puglisi. Una traversa ancora mi preoccupa prima di arrivare. E’ quella che spunta da Via Azzolino Hazon. Il palazzone grigio che si è visto in televisione su Anno zero. Noto alla cronaca cittadina perchè la metà o più dei suoi inquilini ha visto la fama crescergli per via dei fotoritratti sul Giornale di Sicilia. Passo accanto al Centro Padre Puglisi. Capisco che è un altro mondo forse più vicino al nostro. Ricordo poi spesso le parole di Rita Borsellino che ricorda le pietre scagliate dalle saracinesche contro il corteo che sfilava in ricordo di Padre Pino. E’ fatta. Poche pedalate e giungo. Mi rendo conto che non c’è mai serenità in questo attraversamento. La musica ritorna gradualmente a suonare nelle orecchie. Non ho più voglia di pensare. Vado a lavorare. quotidiani Ogni mattina mi reco al lavoro, caparbiamente, tenacemente e irreversibilmente, in bici, indosso le cuffiette Mp3 e attraverso il cuore nero di Brancaccio. Primo passaggio a livello chiuso. Sosta di pochi minuti. Scendo dalla bici. L’mp3 riproduce una colonna sonora random. Lo sguardo si muove lentamente, apparentemente indifferente. Osservo chi in macchina irrequieto e sguardo truce, chi col ciclomotore “truccato” smanioso di passare prepotentemente anche con la barra chiusa, chi ha aperto un’attività commerciale che durerà solo qualche giorno. La fila si allunga, la mia colonna sonora sovrastata dal rombo dei numerosissimi ciclomotori, alcuni smarmittati, altri con targhe manomesse. La mia espressione è certamente più cupa. Madri accompagnano figli, dal destino preformattato, a scuola, quella che lasceranno forse domani. Ecco il treno. Si alzano le sbarre. E’ un zigzagare incrociato di mezzi che sobbalzano, i più giovani sfrecciano. I caschi sono a casa poggiati. Riesco a stare inizialmente coi primi. Vantaggi della bici. Mi passano tutti. Gli auricolari sono soltanto una inutile extension e procedo in leggera salita verso Via San Ciro. L’attraversamento che più mi turba. Le case non nascondono. Per i bassi si intravede. Cani pisciano sulla soglia del vicino, cataste di legname in attesa del falò di S.Giuseppe, bici di picciuttieddi sbucano pericolosamente davanti a me. Mi ritengo fortunato. Procedo mi avvicino ai luoghi di Padre Puglisi. Una traversa ancora mi preoccupa prima di arrivare. E’ quella che spunta da Via Azzolino Hazon. Il palazzone grigio che si è visto in televisione su Anno zero. Noto alla cronaca cittadina perchè la metà o più dei suoi inquilini ha visto la fama crescergli per via dei fotoritratti sul Giornale di Sicilia. Passo accanto al Centro Padre Puglisi. Capisco che è un altro mondo forse più vicino al nostro. Ricordo poi spesso le parole di Rita Borsellino che ricorda le pietre scagliate dalle saracinesche contro il corteo che sfilava in ricordo di Padre Pino. E’ fatta. Poche pedalate e giungo. Mi rendo conto che non c’è mai serenità in questo attraversamento. La musica ritorna gradualmente a suonare nelle orecchie. Non ho più voglia di pensare. Vado a lavorare.