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Dogma e il cinema danese nel 1998

Pubblicato con il titolo La poetica della crudezza ovvero il ruvido vedere del nuovo cinema danese

Su Kane, fanzine autoprodotta, anno tre numero cinque aprile 1999, Barberino del Mugello (Fi).

E’ da qualche anno che il nuovo cinema danese si è rivelato in tutta la sua forza dirompente. Prima con Breaking the wawes e Il Regno di Lars Von Trier e adesso con un gruppo di giovani registi del quale fa parte anche lo stesso Von Trier, che si sono ritrovati a “fare voto di castità” come essi stessi hanno dichiarato nel loro manifesto poetico Dogma 95. Nelle intenzioni dei quattro giovani registi danesi

(Lars Von Trier, Thomas Vinterberg, Christian Levring, Soren Krag Jacobsen) “la volontà di depurare il cinema” dall’inganno spettacolarizzante della fiction, dal superfluo tecnologico, e “lasciare che sia la vita interiore dei personaggi a dare senso alla trama”. Il regista, secondo i rigidi dettami del manifesto, deve prescindere dal considerarsi un artista e deve astenersi dal ‘creare’ un’opera. Essi vogliono ridurre all’essenziale la fiction ed è per questo che si sono dati un ferreo decalogo da osservare:

– Girare on location, senza l’uso di scenografie e accessori

– Abolizione della colonna sonora

– La macchina da presa deve essere tenuta a spalla

– Vietato l’uso di ottiche speciali e filtri

– Nessun salto spaziale, la storia ha luogo “qui ed ora”

– I film di genere non sono ammessi

– Abolire le scene drammaturgiche ad effetto

– Usare solo pellicola in 35 mm a colori

– Il nome del regista non deve comparire nei titoli

– L’illuminazione artificiale non è ammessa

Gli effetti di un cinema così concepito sono profondamente disturbanti per lo spettatore: lo sguardo si interiorizza, non si assiste ad alcun piacere visivo, si partecipa emotivamente alle storie dei personaggi. Nessuna illusione né cosmesi narrativa ma pura indagine filosofica e psicologica. D’altronde questa “nouvelle vague” danese è figlia della tradizione del rigore stilistico di Ingmar Bergman e di Dreyer.

I film di Dogme 95 finora visti in Italia – Festen di Thomas Vinterberg e Idioti di Lars Von Trier – si sono messi in luce a Cannes e a Venezia per la scelta delle tematiche e la crudezza della messa in scena.

IDIOTI

di Lars Von Trier

con Bodil Jorgensen

Danimarca 1998

Una gruppo di giovani accampati in una villa fuori città dà vita ad una sorta di comunità filosofica, finalizzata a contrastare l’ideologia del mondo borghese, liberando l’idiota che ognuno di loro trova in se stesso. Qui per idiota si intende una persona affetta da oligofrenia, da tutte quelle patologie del cervello che provocano deficienza mentale. Nel gruppo si inserisce per caso Karen che non risparmia di esprimere, perplessità e pudore di recitare, un po’ per vezzo un po’ per convenzione ideologica, la parte dell’idiota. Dopo qualche giorno e alcune perfomance in mezzo alla società “normale” anche lei aderisce timidamente alla ricerca dell’idiota che c’è in lei. Il gruppo sembra condividere profondamente l’atteggiamento provocatorio ed ambiguo dalla poetica propugnata dal loro leader, Stoffer, una specie di Robespierre del nichilismo. Ciò che sta realizzando è una fuga dalla “demenza” – per loro quella vera – della società benpensante ed egoista. Quando rimangono nella villa sperimentano una perversa dimensione sociale convinti come sono che le loro relazioni siano più sane di quelle che si vivono all’esterno, nella società malata. Si esercitano continuamente nel tentativo di perfezionare l’idiota che c’è in loro, incontrano dei veri “idioti” per poter meglio sublimare le loro nuove dinamiche sociali.

La situazione comincia a prendere un’altra piega quando i più intransigenti si accorgono che alcuni amici del gruppo, non del tutto convinti, hanno intrapreso quest’esperienza con spirito goliardico.

Per altri invece quella dimensione “altra” ha significato l’elaborazione dell’unico stato possibile dell’esistenza, l’unico per potere essere felici. E quando si tratterà di mettere alla prova ulteriormente la capacità di liberare l’idiota che c’è in loro il gruppo si disintegra. Solo Karen, che si era rivelata all’inizio intimamente più resistente a quest’idiozia della messa in scena degli idioti, ha elaborato una profondissima sofferenza che le ha fatto oltrepassare il limite, la soglia della razionalità. Resterà vittima consapevole del dolore che diventa patologia.

Disturba e non soltanto visivamente questo film che ha già fatto molto discutere. Visti i presupposti del manifesto del nuovo cinema danese non c’è da stupirsi se si fa molta fatica a mettere a fuoco le immagini sempre vacillanti riprese con la macchina a spalla. Nella dichiarazione d’intenti di Dogme 95 d’altronde si fa esplicito riferimento alla vocazione di una poetica emergente solo dalla vita dei personaggi, dalla storia, e nulla è concesso alla costruzione delle immagini.

Non c’è mai tempo per lo sguardo di assestarsi. La grana della pellicola emerge come incrostazioni materiche di residui organici, le sbavature sono predominanti. Il rumore di fondo è costante, anzi nell’assenza di colonne musicali si esalta e non è solo qualità acustica ma visiva, percettiva in genere. Per metonimia si espande fino ad assumere la caratteristica propria della crudezza delle situazioni reali.

È un continuo ossimoro questo Idioti, un film sulla sanità malata della società e sulla patologia sana della tensione ideologica. La cornice in cui è inserita la storia, una serie di interviste ai protagonisti di quell’esperienza, i giovani che recitavano la parte degli idioti, costituisce l’ossatura tipica del cinema verità al quale questo film comunque vuole esplicitamente guardare.

E’ un film inquietante che apre delle voragini. E’ molto provocatoria l’idea che si possa recitare la parte degli idioti, dei malati mentali per indurre la società borghese alla solidarietà, per trasformarla ideologicamente. Perché non è moralmente accettabile recitare la parte del malato, perché non si può schernire una condizione patologica nell’illusione di creare un modello sociale incontaminato dalle corruzioni del mondo. Ma nessuno nel gruppo riuscirà ad essere coerente sino alla fine con i dettami dell’ideologo del gruppo, personaggio che verrà drasticamente schiacciato dalla sua anima troppo razionale, dalla vacuità del suo progetto, dalla sordità emotiva. Solo il dolore vissuto sulla propria carne, sul proprio corpo ha il diritto di gridare silenziosamente la propria disperazione fino a deformare la propria relazione con gli altri.

Compaiono in filigrana tutte le suggestioni della cultura Nord europea l’ascetismo di Kierkegaard e il pessimismo di Schopenauer, il nichilismo nietzscheano, il rigore stilistico di Dreyer e la religione sublime e furente di Bergman. Il contrasto tra il volontarismo razionale, incapace di produrre cambiamenti profondi, e la sensibilità emotiva pronta a registrare le più piccole mutazioni dell’anima, domina tutto il film. A drappeggiare il corpo nudo e crudo del film, un tessuto fatto di poesia con scene e dialoghi da non dimenticare: l’innamoramento di una coppia di ragazzi a cui meglio di tutti riusciva la parte dell’idiota, il volto dolcemente attonito di Karen che non può digerire, nel vero senso della parola, il rituale sociale del dolore, e si produce in un rigurgito di bolo. Reagisce così al giogo delle forme della socialità, mostrando di aver incarnato talmente la sofferenza da patologizzare quello che sembrava un vezzo anticonformista. Ed allora apparire malati ed esserlo coincide. Il rispecchiamento continuo con gli altri non ci permette di “sentire” profondamente le cose, di vivere intimamente la propria sofferenza. Gli altri vogliono che tu sia come essi ti vedono. “Gli idioti sono simili agli angeli perché non possono mentire” ecco perché sarebbe meglio cercare l’idiota che c’è in noi.