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Il cinema nelle parole dei filosofi tra sguardo e immaginario

… partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall’uomo per la sua felicità.  Luigi Pirandello, I quaderni di Serafino Gubbio  operatore

I.1 Il cinema dei filosofi 

La cospicua produzione editoriale che ruota attorno al binomio cinema/filosofia che in quest’ultimi decenni ha visto moltiplicare il numero di titoli disponibili è una conferma dell’attuale tendenza verso un certo interesse scientifico e culturale sui rapporti intercorsi tra questi due mondi apparentemente distanti e disomogenei. Si potrebbe affermare che il rapporto cinema/filosofia sia stato prevalentemente oggetto di attenzione da parte dei filosofi dell’area francese fin dall’inizio del secolo e si è consolidata negli anni Ottanta come letteratura di riferimento per chi voglia prendere in esame la relazione cinema/filosofia. É abbastanza semplice delineare la linea immaginaria delle filiazioni e delle influenze degli studiosi e dei teorici che hanno alimentato gradualmente questo dibattito. Da Bergson a Merleau Ponty a Sartre a Morin da Valery a Deleuze in area francese. Da Benjamin  alla scuola di Francoforte in area tedesca. 

L’avvento del cinema nei modi della produzione artistica e culturale del XX secolo ha fornito una molteplicità di nuovi oggetti d’indagine alla filosofia. Il cinema e la filosofia si sono studiati vicendevolmente ma entrambi hanno soprattutto fatto risuonare i cambiamenti epocali che andavano emergendo. Ha inoltre accresciuto e moltiplicato l’intreccio delle relazioni che intercorrono tra i campi del sapere artistico filosofico, scientifico. Fin dalla comparsa del cinematografo i suoi primi manipolatori si interrogarono sulle potenzialità linguistiche e visive che il nuovo mezzo offriva. I nomi dei primi studiosi e teorici del cinema pionieristico rimangono preziosa testimonianza di un’evoluzione storica graduale e inarrestabile sul piano della riflessione. È però impossibile trovare tra questi i nomi dei grandi filosofi contemporanei. È nelle sue origini, in un’epoca feconda di trasformazioni epocali che il cinema genera quegli stimoli filosofici che caratterizzarono l’alba del nuovo secolo eppure il rapporto tra filosofia e cinema si è caratterizzato fin dall’inizio come un rapporto problematico e fecondo nello stesso tempo, problematico perché eliso esplicitamente e consapevolmente per molti anni e da molti autori importanti, fecondo perché i condizionamenti reciproci e invisibili sono stati fruttuosi di svolte filosofiche. Non compaiono nelle opere dei filosofi del primo novecento opere che si interroghino direttamente sulla questione cinema. Uno dei padri della mediologia, Regis Debray così scrive su questa assenza: “nel processo di riconoscimento del cinema come arte, i filosofi hanno avuto cinquant’anni di ritardo sui poeti.” Ecco la lista dei grandi assenti fornitaci da Debray

Bergson menziona il cinematografo en passant, e in senso peggiorativo; Alain, nei suoi Préliminaires à l’Estétique, pensa che esso ‘respinga il pensiero’ e che ‘la meccanica dello schermo cancelli ogni poesia; Sartre scrive L’Imaginaire et L’Imagination, intesa come struttura di coscienza, certo, ma facendo quasi astrazione, nei suoi esempi, dall’immagine animata o registrata; Heidegger non ne fa alcun cenno nelle sue tre riflessioni sull’opera d’arte (L’origine dell’opera d’arte, 1935; La questione dell’essere, 1955; L’arte e lo spazio, 1969). Per Merleau Ponty, meravigliato dalla pittura, fugacemente cinefilo, Andrè Bazin non esiste. Neanche Benjamin. Nemmeno una parola sul cinema nella Teoria estetica di Adorno, apparsa nel 1970. 

Potremmo aggiungere anche il disagio di Pirandello manifestato attraverso uno dei suoi ultimi romanzi I quaderni di Serafino Gubbio operatore.

E tuttavia saranno le opere di Bergson, di Freud, di Benjamin che indirettamente indagano alcuni dei codici linguistici e strutturali che apparterranno in seguito allo statuto scientifico dell’oggetto cinema. Nel 1896 Bergson pubblica Materia e memoria che indaga sulla percezione e la memoria, sulla funzione dell’immagine come cerniera tra materia e memoria, sul rapporto tra corpo e mente. Paradossale appare poi la nota e manifesta avversione per il cinema espressa da Bergson la cui opera diventerà negli anni ’80 un riferimento costante per il più importante lavoro filosofico sul linguaggio del cinema di Deleuze. Benjamin nel 1936 analizzando le nuove tecnologie della riproducibilità tecnica e tra queste non trascura di menzionare più volte il cinema, mette in evidenza i cambiamenti di statuto dell’arte che si desacralizza e diventa laica permettendo alla società di massa di godere delle opere d’arte al di là del “qui ed ora”. 

Suoi alcuni passaggi teorici fondamentali che contribuiranno a costruire la nozione di cinema come ‘apparato’.

L’estetica benjaminiana è da intendere come un’analisi della situazione sociale a lui contemporanea e in vista di una concezione estetica futura. Si potrebbe intendere anche come importante lezione di lucida analisi teorica rispetto alle innovazioni tecnologiche e agli effetti prodotti sulla società. 

Il rivolgimento della sovrastruttura, che procede molto più lentamente di quello della infrastruttura, ha impiegato più di mezzo secolo per rendere evidente in tutti i campi della cultura il cambiamento delle condizioni di produzione. In quale forma ciò sia avvenuto può essere indicato soltanto oggi.

Centrale nell’opera di Benjamin è la riflessione sul ruolo e sul significato dell’arte nel mondo moderno. Nel suo saggio più famoso, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), riprende da Brecht l’idea del valore politico della tecnica e della forma artistiche e la necessità di trasformazione e superamento delle vecchie concezioni estetiche. Ritenendo che queste hanno una funzione politica regressiva nel momento in cui le trasformazioni politiche ed economiche generano analoghe trasformazioni sul piano dell’esperienza artistica, oppone, nel periodo storico che vede l’affermazione dei fascismi in tutta Europa, a un’estetizzazione della politica, che per l’appunto era perseguita dal fascismo, una politicizzazione dell’arte. 

Il fatto che la nuova epoca era portatrice dal punto di vista tecnologico di una nuova possibilità di riproduzione delle opere d’arte, che si distingue da quella artigianale, perché affidata alla tecnica e perché in grado di produrre multipli in grande quantità e su vasta scala, ha rivoluzionato non solo il modo di fare arte del presente ma anche il modo di fruizione di quella del passato, nonchè la funzione dell’arte:

Ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è “l’aura” dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione,[…] sottrae il riprodotto all’ ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’ altra faccia della crisi attuale e dell’ attuale rinnovamento dell’ umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema. Il suo significato sociale, […] è la liquidazione del valore tradizionale dell’ eredità culturale.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ha reso l’arte accessibile a tutti ed ha perso il tradizionale carattere di auraticità, di sacralità, di unicità, di autenticità e il ‘vecchio’ principio dell’ hic et nunc .Ciò comporta non una perdita di qualità ma una desacralizzazione che favorisce un’esperienza laica della cultura in senso antiautoritario. La perdita dell’”aura” favorisce l’avvicinamento delle masse alle opere d’arte, grazie all’accresciuta esponibilità delle opere, da sempre fruite nella loro originaria dimensione cultuale mediata dalla ritualità. “La riproducibilità tecnica… emancipa l’opera…dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale.” Il valore di esponibilità ha anche prodotto un cambiamento qualitativo della natura dell’opera d’arte, e cioè: 

Così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in un certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale.

Quali altre funzioni Benjamin non ci dice, ma si può senz’altro ammettere che questa intuizione, quella cioè della funzione artistica che potrebbe divenire marginale, si è proiettata con molta puntualità nel nostro presente. 

Sulla fortuna e sul destino che ebbe l’opera di Benjamin c’è da dire che il saggio, appena pubblicato nell’Europa dei fascismi, fu salutato positivamente dalla neonata Scuola di Francoforte dove si sarebbero espressi i continuatori in qualche modo del pensiero benjaminiano; anche se in direzioni diverse e magari dotati di una radicale ed ortodossa concezione materialistica. Riguardo alle tesi sulla perdita dell’aura però, la posizione di Adorno, Horkheimer, Marcuse, mutò da un iniziale momento di condivisione, in cui riconoscevano la possibilità di opporre ai totalitarismi una diversa educazione delle masse fondata sull’uso dei mezzi di comunicazione tecnologizzati, a una critica radicale dei mass-media ormai utilizzati al fine di manipolare le coscienze. Inoltre nella Teoria estetica di Adorno, la perdita dell’aura assunse un valore del tutto negativo, anche se egli ha sempre affermato di condividere le tesi benjaminiane.   

Ernst Bloch nel suo Il principio speranza, iniziato nel 1938 e pubblicato nel 1956,parla del cinema come di una macchina dei sogni, di laboratorio di desideri e di attese collettive come di una traccia scomposta del “sogno di una vita migliore”. 

Quanto il cinema sia influente sulla quotidiana esperienza del mondo è il tema principale dell’opera di S. Cavell in un’opera del 1971 Guardare il mondo. Riflessioni sull’ontologia del film. riconosce al cinema un peso importante nella costruzione della nostra esperienza del mondo, eminentemente sul piano ermeneutico. Infatti sappiamo bene come alcuni film siano in grado di suscitare l’interesse per il proprio passato, facendoci applicare una sorta di ermeneutica del soggetto, altri invece riescano ad agire più sul piano teleologico, rievocando il concetto greco di telos, il progetto della nostra esistenza, in una prospettiva di riconsiderazione o eventuale aggiustamento dei progetti sul nostro futuro. Basti pensare quanto sia influente inoltre, il modo di porsi dei divi dello star-system, sul comportamento della massa, dei giovani e dei fan che, immedesimandosi nei propri idoli (eidolon in greco immagine, simulacro) ne copiano gesti, modo di vestire o linguaggio. Opere cruciali dal punto di vista dell’indagine del linguaggio cinematografico in chiave filosofica saranno i due libri di Deleuze L’immagine-movimento (1987) e L’immagine-tempo (1989), opere nelle quali “si stabilisce un’analogia operativa tra cinema e filosofia intese come pratiche operative di un pensiero in perenne movimento.”

Giuseppe Puntarello (©)