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Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo

Lo spasimo di Palermo è un nostos, il racconto di un ritorno, quello del protagonista lo scrittore Gioacchino Martinez, ai luoghi amati e odiati della sua infanzia e della sua giovinezza, Palermo e la Sicilia. Ambientato in un periodo che va dalla fine della guerra ai giorni nostri, la memoria del protagonista scandaglia eventi, tragedie, illusioni e personaggi che hanno costellato la sua storia individuale. Il flusso della memoria prende avvio dall’interruzione, causata dai bombardamenti, di Judex, un film del 1916 di Feuillade visto all’oratorio da bambino, e si conclude con la tragedia dell’assassino di un giudice, ricalco della strage in cui rimasero vittime Borsellino e la sua scorta. E’ un doloroso riandare con la memoria tra i mali della storia individuale e collettiva.

Così dice sinteticamente Vincenzo Consolo: “è un libro in cui vengono registrate le sconfitte, è soprattutto la memoria degli innocenti sopraffatti dai delinquenti.”

Inevitabile appare dunque a Consolo fare i conti con la storia lacerante della sua terra fatta di interruzioni violente di sopraffazioni e sebbene questo romanzo abbia la forma del romanzo storico nulla ce lo fa ricondurre alla tradizione canonica del genere letterario. E’ assente lo schema narrativo lineare del romanzo, nessuna unità organica spazio-temporale, solo frammenti giustapposti che si ricompongono lentamente. Più volte l’autore ha dichiarato la sua avversità alla forma romanzo e di questo c’è traccia anche in quest’ultima opera: “Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch’era finita in urlo, s’era dissolta nel silenzio.”

Ed il silenzio rappresenta il limite, il filo del rasoio, quell’attrazione repulsiva in cui vive costantemente il protagonista ed anche l’autore, terrorizzato com’è da un lato dal vuoto dell’azione e dall’altro dall’inefficacia delle parole.

Il dato suggestivo che emerge in rilievo è però la poesia o meglio “la lingua-poesia, la lingua rivelazione”. “E’ una lingua contraria a ogni altra logica, fiduciosamente comunicativa, di padri o fratelli più anziani, involontari complici dei responsabili del disastro sociale”, si legge nel libro di Consolo. Ma l’arrovellarsi nel ricercare una lingua diversa è servito a ben poco, ammette disilluso il protagonista anzi è servito a ritrarre la scrittura nel silenzio, non nella pace ma nella coscienza turbata dalla tragedia.

di Giuseppe Puntarello